“Sono spacciatori, apprendisti terroristi stupratori e rapinatori. Sono i cosiddetti imam a cui si affidano per preghiere e pratica religiosa i 7.646 detenuti di fede musulmana nelle carceri italiane. L’inquietante spaccato emerge da un documento segreto del nostro governo di cui il Giornale ne è in possesso. Un dossier in cui sono elencati non solo le generalità e l’origine dei 148 sedicenti imam, in gran parte marocchini, tunisini e algerini che controllano la preghiera nelle carceri italiane, ma anche le note con cui vengono segnalati e descritti dagli operatori dell’autorità carceraria.”
Prima di entrare nella notizia, facciamo un passo indietro!
L’art. 26 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975) riconosce ai detenuti e agli internati la libertà di professare la propria fede, di “istruirsi” nella propria religione, di praticarne il culto. Negli istituti penitenziari è assicurata la celebrazione del culto cattolico e la presenza di almeno un cappellano, mentre i detenuti e gli internati di altre religioni hanno il diritto di ricevere, su richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti, purché siano compatibili con l’ordine e la sicurezza, non si esprimano in comportamenti molesti per la comunità o contrari alle legge.
L’art. 58 del regolamento di esecuzione (d.p.r. 230/2000) stabilisce che le direzioni devono avvalersi dei ministri di culto di religioni diverse da quella cattolica indicati da quelle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato italiano sono regolati con legge oppure indicati dal Ministero dell’interno. In alternativa l’ingresso dei ministri di culto può essere autorizzato in base all’art. 17 ord. penit. in quanto queste figure possono essere ricomprese tra gli operatori appartenenti alla comunità esterna che collaborano all’azione rieducativa, promuovendo “lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.
La presenza del ministro di culto, però, di fatto non è condizione necessaria per la “riunirsi in preghiera”; momenti associativi durante i quali non è raro che uno dei presenti (anch’esso detenuto) “guidi” gli altri nella professione della fede.
Ora, se ciò non stupisce gli addetti ai lavoro in quanto pratica abituale all’interno degli istituti, la ricostruzione effettuata dalla stampa apre lo scenario ad un prisma di letture, forse capaci di mettere a rischio la sicurezza di noi operatori. I tecnicismi che abbiamo innanzi riportato chiariscono come non si tratti di IMAM nel
senso comune del termine (per le cui autorizzazioni all’accesso in carcere dall’esterno vi sono
miriade di controlli e accertamenti che coinvolgono anche il Ministero dell’Interno), ma di
altri detenuti, protagonisti di uno qualunque di quei reati per i quali è prevista la reclusione.
“Il Giornale”, dunque, con un risalto mediatico logicamente proprio, altro non fa che
descrivere una realtà conosciuta nel mondo penitenziario e costantemente monitorata
attraverso quei processi di osservazione che sono propri delle attività del Corpo di Polizia
Penitenziaria.
Vista la delicatezza della questione del “proselitismo” fra le mura del carcere, le
informazioni meriterebbero – forse – di essere trattate con maggior cautela e minor enfasi,
magari confidando maggiormente nelle capacità professionali dimostrate dagli operatori
Penitenziari tutti, a tutela della sicurezza del Paese e di tutte quelle figure che proprio in
Carcere prestano la propria opera.
Utilizziamo i cookie per assicurarti di offrirti la migliore esperienza sul nostro sito web. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.Ok
COMUNICATO – “Assassini, ladri e terroristi: ecco l’imam dentro le carceri” da “ Il Giornale” del 15 gennaio 2017 Il Si.N.A.P.Pe commenta la notizia
“Sono spacciatori, apprendisti terroristi stupratori e rapinatori. Sono i cosiddetti imam a cui si affidano per preghiere e pratica religiosa i 7.646 detenuti di fede musulmana nelle carceri italiane. L’inquietante spaccato emerge da un documento segreto del nostro governo di cui il Giornale ne è in possesso. Un dossier in cui sono elencati non solo le generalità e l’origine dei 148 sedicenti imam, in gran parte marocchini, tunisini e algerini che controllano la preghiera nelle carceri italiane, ma anche le note con cui vengono segnalati e descritti dagli operatori dell’autorità carceraria.”
Prima di entrare nella notizia, facciamo un passo indietro!
L’art. 26 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975) riconosce ai detenuti e agli internati la libertà di professare la propria fede, di “istruirsi” nella propria religione, di praticarne il culto. Negli istituti penitenziari è assicurata la celebrazione del culto cattolico e la presenza di almeno un cappellano, mentre i detenuti e gli internati di altre religioni hanno il diritto di ricevere, su richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti, purché siano compatibili con l’ordine e la sicurezza, non si esprimano in comportamenti molesti per la comunità o contrari alle legge.
L’art. 58 del regolamento di esecuzione (d.p.r. 230/2000) stabilisce che le direzioni devono avvalersi dei ministri di culto di religioni diverse da quella cattolica indicati da quelle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato italiano sono regolati con legge oppure indicati dal Ministero dell’interno. In alternativa l’ingresso dei ministri di culto può essere autorizzato in base all’art. 17 ord. penit. in quanto queste figure possono essere ricomprese tra gli operatori appartenenti alla comunità esterna che collaborano all’azione rieducativa, promuovendo “lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.
La presenza del ministro di culto, però, di fatto non è condizione necessaria per la “riunirsi in preghiera”; momenti associativi durante i quali non è raro che uno dei presenti (anch’esso detenuto) “guidi” gli altri nella professione della fede.
Ora, se ciò non stupisce gli addetti ai lavoro in quanto pratica abituale all’interno degli istituti, la ricostruzione effettuata dalla stampa apre lo scenario ad un prisma di letture, forse capaci di mettere a rischio la sicurezza di noi operatori. I tecnicismi che abbiamo innanzi riportato chiariscono come non si tratti di IMAM nel
senso comune del termine (per le cui autorizzazioni all’accesso in carcere dall’esterno vi sono
miriade di controlli e accertamenti che coinvolgono anche il Ministero dell’Interno), ma di
altri detenuti, protagonisti di uno qualunque di quei reati per i quali è prevista la reclusione.
“Il Giornale”, dunque, con un risalto mediatico logicamente proprio, altro non fa che
descrivere una realtà conosciuta nel mondo penitenziario e costantemente monitorata
attraverso quei processi di osservazione che sono propri delle attività del Corpo di Polizia
Penitenziaria.
Vista la delicatezza della questione del “proselitismo” fra le mura del carcere, le
informazioni meriterebbero – forse – di essere trattate con maggior cautela e minor enfasi,
magari confidando maggiormente nelle capacità professionali dimostrate dagli operatori
Penitenziari tutti, a tutela della sicurezza del Paese e di tutte quelle figure che proprio in
Carcere prestano la propria opera.
170116_comunicato_imam_articolo de il giornale
Cerca
Categorie
Ultimi articoli inseriti
Calendario