“Sono fuori controllo. Vi dominano le organizzazioni mafiose”. Basterebbero queste due minime affermazioni riferite al carcere per dare la misura dell’allarme sociale ed istituzionale connesso alla questione, a maggior ragione se si inquadra l’autorevolezza della figura pubblica che le ha pronunciate. Sono queste le parole che il Procuratore della Repubblica di Napoli, Dott. Giovanni Melillo, già Capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia fino agli inizi del 2017, ha utilizzato (secondo la stampa) in occasione dell’audizione Antimafia. Il dottor Melillo, dal suo osservatorio certamente qualificato e privilegiato, ha descritto le carceri come quel luogo in cui lo Stato “esercita una assai limitata capacità di controllo”; quel luogo che, al contrario, dovrebbe essere baluardo di legalità. Ad avvalorare una tesi che pare non esser solo una competente percezione, Melillo fa riferimento al costante rinvenimento di telefoni cellulari all’interno dei penitenziari (guardando al fenomeno con una inconcepibile forma di rassegnazione che si legge nelle parole “non li sequestriamo neanche più talmente tanti sono”) oltre al rinvenimento di sostanze stupefacenti, che inducono il Procuratore del capoluogo campano, che ha fatto del sapiente e contenuto uso della parola il suo marchio distintivo, a parlare della presenza, in alcuni casi, di “autentiche piazze di spaccio”. Gli inquietanti concetti sopra enucleati non sono dissimili agli allarmi che questa Organizzazione Sindacale ha consegnato costantemente ai propri interlocutori, chiedendo un rafforzamento dei sistemi di sicurezza, perorando la causa dell’istallazione degli inibitori di frequenza telefonica, sostenendo l’impiego delle unità cinofile: in una sola parola chiedendo risorse e mezzi per poter operare. Questo perché, in estrema sintesi, non v’è filosofia penitenziaria, a prescindere dalla propria matrice sia essa maggiormente orientata alla custodia o al trattamento, che possa dirsi efficace ed efficiente se al centro non si riporta la legalità; quella legalità che non lascia la percezione del proprio esistere se con la Polizia Penitenziaria si gioca una partita al ribasso. Si comprendono – da cittadini di questo Paese – le necessità connesse alla finanza pubblica; si comprendono finanche le misure tanto attuali di pene detentive per i grandi evasori; quello che si fatica a comprendere è la mancata percezione dello stato di sofferenza dei penitenziari italiani che, in questo scenario, paiono muoversi lungo un’onda direzionata nel senso opposto rispetto a quello tracciato dalla Costituzione. Ebbene, se per cultura le parole dell’Organizzazione Sindacale sono destinate a far poca presa nelle coscienze di coloro che amministrano, se gli allarmi lanciati dagli operatori penitenziari per voce delle organizzazioni sindacali subiscono un’abituale minimizzazione, lo stesso processo minimizzante non può attribuirsi alla “denuncia” di un osservatore esterno, competente e qualificato. Responsabilmente abbandonando logiche massificanti, se questo è lo scenario che interessa “alcuni” penitenziari, è irrinunciabile chiedersi quale sia la risposta dello Stato rispetto alla lenta ma inesorabile deriva del sistema. Dal punto di vista strettamente amministrativo, al di là delle recenti indicazioni sui rafforzamenti dei sistemi di sicurezza emanati dal Capo del Dipartimento (in invarianza di risorse umane), quale attività si sta conducendo per riportare in asse il sistema penitenziario? È doveroso chiedersi conseguentemente che fine abbia fatto quel ragionamento sugli eventi critici che generano, ad avviso di chi scrive, anche da una percezione distorta della popolazione detenuta del sistema di legalità in carcere. Spostando il campo di osservazione sulle responsabilità politiche, come si può pensare di normare condotte e penalizzarle, di ragionare “intorno al carcere” senza guardare al suo interno? Perché è questo che accade ogni qual volta si guarda alla detenzione come “misura” ma non si pensa come connessione di elementi a seri incrementi degli organici di coloro che saranno poi chiamati a vigilare. Il rapporto proporzionale (tendente sempre più al basso) è evidentemente insufficiente per rispondere non solo alle esigenze di sicurezza, ma anche semplicemente alla gestione della quotidianità penitenziaria. Le parole di cui all’intro, ancora più acute proprio per l’alta caratura della loro paternità, sicuramente lasciano un segno in un lettore sensibile; lo stesso (e magari più profondo) solco che devono lasciare in coloro cui è affidata la responsabilità di questo Paese. Si intervenga prima che sia davvero troppo tardi, se non è già troppo tardi!
Utilizziamo i cookie per assicurarti di offrirti la migliore esperienza sul nostro sito web. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.Ok
Carcere e legalità – L’allarme del procuratore di Napoli: “Alcune carceri sono fuori controllo” – articolo “Il Mattino” del 24 ottobre 2019
“Sono fuori controllo. Vi dominano le organizzazioni mafiose”. Basterebbero queste due minime affermazioni riferite al carcere per dare la misura dell’allarme sociale ed istituzionale connesso alla questione, a maggior ragione se si inquadra l’autorevolezza della figura pubblica che le ha pronunciate. Sono queste le parole che il Procuratore della Repubblica di Napoli, Dott. Giovanni Melillo, già Capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia fino agli inizi del 2017, ha utilizzato (secondo la stampa) in occasione dell’audizione Antimafia. Il dottor Melillo, dal suo osservatorio certamente qualificato e privilegiato, ha descritto le carceri come quel luogo in cui lo Stato “esercita una assai limitata capacità di controllo”; quel luogo che, al contrario, dovrebbe essere baluardo di legalità. Ad avvalorare una tesi che pare non esser solo una competente percezione, Melillo fa riferimento al costante rinvenimento di telefoni cellulari all’interno dei penitenziari (guardando al fenomeno con una inconcepibile forma di rassegnazione che si legge nelle parole “non li sequestriamo neanche più talmente tanti sono”) oltre al rinvenimento di sostanze stupefacenti, che inducono il Procuratore del capoluogo campano, che ha fatto del sapiente e contenuto uso della parola il suo marchio distintivo, a parlare della presenza, in alcuni casi, di “autentiche piazze di spaccio”. Gli inquietanti concetti sopra enucleati non sono dissimili agli allarmi che questa Organizzazione Sindacale ha consegnato costantemente ai propri interlocutori, chiedendo un rafforzamento dei sistemi di sicurezza, perorando la causa dell’istallazione degli inibitori di frequenza telefonica, sostenendo l’impiego delle unità cinofile: in una sola parola chiedendo risorse e mezzi per poter operare. Questo perché, in estrema sintesi, non v’è filosofia penitenziaria, a prescindere dalla propria matrice sia essa maggiormente orientata alla custodia o al trattamento, che possa dirsi efficace ed efficiente se al centro non si riporta la legalità; quella legalità che non lascia la percezione del proprio esistere se con la Polizia Penitenziaria si gioca una partita al ribasso. Si comprendono – da cittadini di questo Paese – le necessità connesse alla finanza pubblica; si comprendono finanche le misure tanto attuali di pene detentive per i grandi evasori; quello che si fatica a comprendere è la mancata percezione dello stato di sofferenza dei penitenziari italiani che, in questo scenario, paiono muoversi lungo un’onda direzionata nel senso opposto rispetto a quello tracciato dalla Costituzione. Ebbene, se per cultura le parole dell’Organizzazione Sindacale sono destinate a far poca presa nelle coscienze di coloro che amministrano, se gli allarmi lanciati dagli operatori penitenziari per voce delle organizzazioni sindacali subiscono un’abituale minimizzazione, lo stesso processo minimizzante non può attribuirsi alla “denuncia” di un osservatore esterno, competente e qualificato. Responsabilmente abbandonando logiche massificanti, se questo è lo scenario che interessa “alcuni” penitenziari, è irrinunciabile chiedersi quale sia la risposta dello Stato rispetto alla lenta ma inesorabile deriva del sistema. Dal punto di vista strettamente amministrativo, al di là delle recenti indicazioni sui rafforzamenti dei sistemi di sicurezza emanati dal Capo del Dipartimento (in invarianza di risorse umane), quale attività si sta conducendo per riportare in asse il sistema penitenziario? È doveroso chiedersi conseguentemente che fine abbia fatto quel ragionamento sugli eventi critici che generano, ad avviso di chi scrive, anche da una percezione distorta della popolazione detenuta del sistema di legalità in carcere. Spostando il campo di osservazione sulle responsabilità politiche, come si può pensare di normare condotte e penalizzarle, di ragionare “intorno al carcere” senza guardare al suo interno? Perché è questo che accade ogni qual volta si guarda alla detenzione come “misura” ma non si pensa come connessione di elementi a seri incrementi degli organici di coloro che saranno poi chiamati a vigilare. Il rapporto proporzionale (tendente sempre più al basso) è evidentemente insufficiente per rispondere non solo alle esigenze di sicurezza, ma anche semplicemente alla gestione della quotidianità penitenziaria. Le parole di cui all’intro, ancora più acute proprio per l’alta caratura della loro paternità, sicuramente lasciano un segno in un lettore sensibile; lo stesso (e magari più profondo) solco che devono lasciare in coloro cui è affidata la responsabilità di questo Paese. Si intervenga prima che sia davvero troppo tardi, se non è già troppo tardi!
Cerca
Categorie
Ultimi articoli inseriti
Calendario