
«La nostra idea è che occorra usare il carcere laddove strettamente necessario e non come strumento di propaganda ideologica. Però al tempo stesso occorre pensare e realizzare un ordinamento penitenziario che abbia caratteristiche completamente diverse. Dire carcere e basta non è sufficiente a garantire la sicurezza, anzi rischia persino di essere controproducente». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando su questo tema ha idee chiare e condivise da quasi tutti gli “agenti” che si occupano di esecuzione penale. Dalle associazioni ai magistrati, dai sindacati di polizia penitenziaria alle camere penali. «Perché questo è l`unico modo – dice per avere un carcere utile e non una semplice parentesi fra attività di carattere illegale, rappresentando in alcuni casi addirittura un salto di qualità criminale».
Dopo le misure che negli anni scorsi hanno permesso di migliorare la situazione del sovraffollamento dei nostri istituti di pena e uscire così dal regime sanzionatorio dell`Unione Europea,ora i numeri segnalano un nuovo progressivo aumento della popolazione carceraria.
Cosa sta succedendo?
«L`aumento è dovuto alla crescita significativa degli accessi nelle strutture carcerarie legata ad una forte attività di contrasto della criminalità delle forze di polizia. Però va segnalato che il sistema ha tenuto.Essenzialmente per tre ragioni: l`aumento del ricorso alle pene alternative, quello del numero dei detenuti tossicodipendenti affidati alle comunità e quello dei posti disponibili. I detenuti sono di più ma sono di più anche posti disponibili nelle strutture: nel 2013 erano 45mila, oggi sono 50.200 e aumenteranno di ulteriori 800 unità nei prossimi mesi arrivando così a quota 51mila con un numero di detenuti che si è più o meno assestato sui 54mila contro i 65mila del 2013».
Nessun allarme, quindi?
«In definitiva possiamo dire che se è vero che esiste un trend di crescita nel numero dei reclusi è altrettanto vero che questa tendenza non mette a rischio la tenuta del sistema. Occorre però anche ammettere che pur avendo oggettivamente migliorato le condizioni generali, a fronte di un aumento costante degli accessi non abbiamo raggiunto il punto di equilibrio a cui invece puntiamo ad arrivare innalzando il numero dei posti negli istituti, aumentando il numero dei detenuti tossicodipendenti affidati alle strutture riabilitative, perseguendo con determinazione l`attività di rimpatrio dei reclusi stranieri e lavorando all`utilizzo delle colonie agricole».
La delega per la modifica dell`ordinamento penitenziario è ferma da qualche mese, assieme alla riforma della Giustizia, al Senato. A cosa aspirano le nuove norme?
«Il nostro proposito è di insistere sulla forte accentuazione del carattere riabilitativo della pena. Non solo per aderire al dettame costituzionale ma anche come strumento per realizzare sicurezza. Abbiamo un sistema penale che costa ogni anno ai contribuenti 3 miliardi di euro eppure siamo costretti a registrare tassi di recidiva fra i più alti d`Europa. Il nostro obiettivo è di procedere per garantire una vera attività trattamentale che guardi non solo al momento dell`accesso negli istituti ma anche e soprattutto a quello dell`uscita. E la chiave di volta di questo ragionamento è la personalizzazione del trattamento,perché noi oggi abbiamo un carcere che tratta detenuti con profili diversi tutti allo stesso modo. E in questo maniera non riusciamo sempre a ottenere risultati seri in fatto di riabilitazione. Invece dobbiamo lavorare sul fronte della personalizzazione, aumentando la responsabilizzazione del detenuto e garantendo così l`accesso ai benefici in base ai comportamenti positivi tenuti nel corso dell`esecuzione della pena. Penso al lavoro o allo studio, ad esempio. Il sistema oggi, invece, produce una infantilizzazione che deresponsabilizza il detenuto e non produce effetti accettabili sulla riabilitazione».
Ha parlato di recidiva. I numeri dimostrano che i detenuti che lavorano hanno tassi di ritorno al crimine decisamente più bassi (meno del 10% contro il 67% circa), eppure i numeri dei detenuti impiegati è ancora molto basso, specie di quelli che lavorano fuori dagli istituti.
«Lavorare nel corso dell`esecuzione della pena non solo consente di scontarla in modo più produttivo e quindi finalizzato alla riabilitazione ma consente inoltre al detenuto di acquisire competenze professionali che gli permettono, una volta uscito, di non ricadere nella spirale delinquenziale. Il numero dei detenuti lavoratori in questi anni è aumentato costantemente, tuttavia non possiamo ancora essere soddisfatti. Per questo stiamo portando avanti un piano per il recupero delle colonie agricole e nei prossimi giorni ne vareremo uno per le case lavoro. Al momento è allo studio la creazione di una struttura che si occupi di procacciare lavoro e di distribuirlo all`interno degli istituti. Poi, con l`attuazione della legge Smuraglia, abbiamo creato delle condizioni di vantaggio per chi impiega detenuti».
Il tema del lavoro dei detenuti, assieme a quello delle pene alternative, si scontra però spesso con un`opinione pubblica che su questi temi è ancora troppo spesso legata a concezioni legalitarie sbagliate quando non controproducenti.
«Per molti anni si è raccontato che il carcere fosse lo strumento con il quale si realizzava sicurezza e nonostante i fatti abbiano dimostrato che la detenzione da sola non basta si è comunque continuato su questa strada. Noi invece ne abbiamo scelta un`altra che non passa peri “piani carcere” e un incremento esponenziale dei posti disponibili. Noi abbiamo deciso di procedere per la strada delle pene alternative, delle comunità come luogo in cui i tossicodipendenti possano scontare la propria pena, dell`incremento del lavoro dietro alle sbarre e dello studio. Per quest`ultimo strumento lo scorso anno abbiamo firmato un protocollo con il Miur che aumenta le possibilità di accesso all`istruzione superiore e all`università da parte dei detenuti».
È di questi ultimi mesi l`allarme sulla radicalizzazione islamica in cella. Cosa sta facendo il ministero e l`anuninistrazione penitenziaria per affrontare questo pericolo?
«Va detto innanzitutto che a quanto ci consta questo è un fenomeno ancora in fase incipiente e comunque non comparabile rispetto a quanto avviene in altri paesi europei. Però, nonostante questo, noi abbiamo deciso in ogni caso di mettere in campo da subito le misure necessarie a partire da un dettagliato monitoraggio. Posso dire che in questo momento abbiamo il quadro esatto del fenomeno e dei comportamenti delle persone che hanno dato segnali, anche marginali, di comportamenti che a nostro avviso vanno classificati e seguiti. Però contemporaneamente ci siamo spesi per garantire l`accesso al culto in modo da togliere qualunque pretesto ai predicatori d`odio. Per questo, ad esempio, abbiamo di recente firmato un accordo con l`Unione delle comunità islamiche e lo stesso faremo con altri soggetti che sono in grado di garantire la predicazione nelle carceri. Nel frattempo stiamo lavorando con l`università di Padova per emanare delle linee guida sulla deradicalizzazione. Pensiamo che questo rappresenti un importante salto di qualità: una volta individuato il detenuto potenzialmente a rischio studiamo il modo per intervenire a livello culturale e psicologico in modo da spezzare il meccanismo di radicalizzazione ed evitare che il soggetto diventi una cellula di contaminazione rispetto al resto della comunità dei detenuti e fuori dal carcere».
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