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IL SINAPPE REPLICA IL SERVIZIO DELLE IENE – Trasmissione dell’8 aprile 2018 – servizio di Matteo Viviani sugli episodi del Carcere di Asti.

Aprile 9, 2018 Sinappe 0 Comments

Spettabile redazione,

chi scrive è il Segretario Generale del Si.N.A.P.Pe, uno dei maggiori sindacati della Polizia Penitenziaria. Lo scopo è quello di rappresentare l’amarezza percepita dagli appartenenti al Corpo a seguito dell’ennesimo servizio sui deprecabili episodi che hanno interessato il penitenziario di Asti circa 14 anni fa. Lungi dal voler ergersi a difensori civici di un sistema, quello penitenziario, o di una ideologia, quella securitaria, e prendendo assolutamente le distanze dai deprecabili episodi giustamente condannati dalla magistratura in primis, sotto il profilo penale, e dall’amministrazione penitenziaria in secundis sotto il profilo disciplinare, ciò che si ritiene doveroso rappresentare è la parzialità con cui è stata nuovamente descritta la vicenda, con un esercizio di spaventosa massificazione che ha trovato il suo fil rouge nel concetto, più volte ripetuto, che il carcere è un mondo in cui non esistono regole e dove comanda la polizia penitenziaria. Nulla di più sbagliato! Nulla di più distante dalla verità! Il giornalista ha dato voce, da un lato, al detenuto vittima dei soprusi, dall’altro (quasi a rappresentare la voce del Corpo) alla stupefacente testimonianza di un ex appartenente al Corpo che ha narrato – con sconcertante naturalezza – l’efferatezza del comportamento di pochi, inducendo nel telespettatore l’erronea ed infondata idea che quella brutalità, quell’inumanità, appartenga all’agire della Polizia Penitenziaria.
Ebbene, l’esatta misura di ciò che è non può scaturire da quelle parole, raccontate con raccapriccianti sorrisi, da parte di chi non solo non appartiene più al Corpo ma forse non meritava nemmeno di appartenervici in passato. La vicenda di Asti, isolata, unica nel suo genere, eclatante, ha riguardato 5 unità di polizia penitenziaria; se si considera che ad oggi l’organico è di circa 38 mila unità, la proporzione è presto fatta. La Polizia Penitenziaria non è quella narrata (per l’ennesima volta) nel servizio andato in onda nella tarda serata di ieri; la crudeltà di uno sparuto gruppetto di “delinquenti”, che immeritatamente sono stati “uomini dello Stato”, non può e non deve adombrare l’umanità, la professionalità, la correttezza, l’abnegazione di 38mila appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Il carcere non è quel mondo senza regole che vuole farsi emergere dalle artate ricostruzioni di pochi; il carcere è baluardo di legalità, è istituzione, è rieducazione e reinserimento. Il poliziotto penitenziario non è il cerbero mitologico, l’uomo nero, il cattivo. Il poliziotto penitenziario è colui che si rapporta quotidianamente con la sofferenza e l’insofferenza umana; è colui che sorveglia a vista detenuti che dimostrano volontà autolesionistiche al solo scopo di impedirne l’effettuazione; è colui che entra impavidamente in una cella dove è stato dolosamente appiccato un incendio, per mettere in salvo vite umane. Il poliziotto penitenziario è colui che ascolta, risolve piccoli e grandi drammi quotidiani, perché per un uomo dietro le sbarre anche il più ordinario nei problemi può essere avvertito come un dramma. Il poliziotto penitenziario è spesso il parafulmine delle insofferenze alla reclusione; ne danno prova le quotidiane aggressioni ad opera di detenuti “difficili”, molti dei quali con problemi psichiatrici. Allora è davvero ingeneroso, nei confronti dello Stato e dei suoi rappresentanti, dedicare un minimo cenno, pochi secondi in chiusura di servizio, a chiarire che “non sono tutti così”. Ecco, non solo “non siamo tutti così”, non solo coloro che si sono macchiati di quei crimini non sono più nelle fila della Polizia Penitenziaria a dimostrazione che indossavano immeritatamente una divisa di cui hanno macchiato l’onore e la gloria, ma siamo ben diversi, siamo l’esatto opposto. Siamo “uomini” prima ancora che “uomini delle istituzioni”, siamo perfettamente consapevoli che il concetto di reclusione, di privazione della libertà personale, è un concetto “innaturale” che genera sofferenza nell’essere umano, ma siamo altrettanto consapevoli che si tratta di misure poste a fondamento e funzionamento del sistema penale italiano, che si basano su regole di esecuzione precise, chiare e mai disapplicate dalla polizia penitenziaria. Se poi la riflessione si sposta sul piano delle condizioni di detenzione, non possiamo che unirci al grido d’allarme lanciato dalle varie associazioni in relazione al sovraffollamento e alla decorosità delle strutture, ma i piani umani non vanno confusi con queste defaillance strutturali. Il carcere, quel mondo che è stato descritto come un limbo senza regole, è invece il suo esatto opposto. In carcere si studia, in carcere si apprendono mestieri, in carcere si socializza, si scoprono sentimenti religiosi capaci, a volte, di aprire nuovi orizzonti di vita. Equipe di professionisti organizzano e monitorano questi percorsi e la polizia penitenziaria partecipa attivamente e garantisce la sicurezza sia di tutti gli operatori sia degli stessi reclusi. Questo è il carcere; qualcosa di molto lontano da ciò che è stato descritto. Questa è la Polizia Penitenziaria, che meriterebbe ben altri tributi. Ritengo quindi doveroso farmi portavoce dell’indignazione del personale di Polizia Penitenziaria (la stragrande maggioranza, la quasi totalità) che non si riconosce nel quadro che è emerso dal servizio mandato in onda, nella speranza che un servizio di informazione corretto voglia dar voce al Corpo, quello autentico, alle migliaia di donne e uomini che ogni giorno onorano la divisa che indossano.
Restando a disposizione per un gradito confronto, riporto in calce i contatti della Segreteria Generale: info@sinappe.it, tel. 0774378108, mob. 3493671300. Distinti saluti

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